Quando Liggio si arrese ai carabinieri
Di origine contadina, Luciano Leggio, meglio conosciuto come Liggio a causa di un errore di trascrizione, nacque il 6 gennaio del 1925 a Corleone, località dell’hinterland palermitano, notoriamente stigmatizzata come patria per antonomasia dei massimi esponenti di Cosa Nostra. Lucianeddu già da adolescente era stato affiliato ad una cosca locale dello zio paterno, Luca Leggio, iniziando così la sua tristemente nota escalation malavitosa che, a partire dal 1944, assunse rilievo sempre maggiore nel clan dei Corleonesi, a cui appartenevano anche Totò Riina, Calogero Bagarella e Bernardo Provenzano: commissionati nei panni di mandante, oppure eseguiti da lui personalmente una serie di efferati omicidi, come quello – perpetrato nel 1948 in combutta con un manipolo di “gregari”– dello scomodo sindacalista Placido Rizzotto, il cui cadavere lui stesso getterà nelle foibe di Rocca Busambra, altura che domina Corleone, inaugurando la pratica della “lupara bianca”. Tale atrocità, che segnò l’inizio della latitanza di questo “genio del male”, era stata consumata su ordine del dottor Michele Navarra, padrino di Liggio, che quest’ultimo sostituirà al vertice dei Corleonesi, di cui si aggiudicò l’egemonia nel 1959, a soli 34 anni, dopo il plateale assassinio del medico, crivellato di proiettili da un commando di killer mentre rientrava a casa con la sua auto.
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«Per noi figli», dice il generale Gianfranco Milillo, «è sempre stato un papà affettuoso, presente, dall’animo estremamente sensibile e, come si evince dai suoi scritti, in cui “fotografava” la realtà mettendola in rima, colto ma soprattutto dall’incrollabile fede religiosa, tale da renderlo una guida spirituale di sicuro sostegno in ogni frangente; era pure dotato di un carattere eccezionale, in grado di conciliare la ferma severità con una grande umanità e comprensione nei confronti delle esigenze dei dipendenti, da cui viene ancora proprio per questo rimpianto. La sua intensa dedizione alla famiglia si spiega anche perché, ultimo di una numerosa prole di sette rampolli, rimasto orfano della mamma a soli nove anni, era stato inviato da Sambuca di Sicilia, nell’agrigentino, dov’era nato il 1° gennaio 1914, al collegio romano dei Padri Pallottini, per compiere gli studi ginnasiali e liceali. Laureatosi in Lettere e Filosofia, con specializzazione in Teologia, nel 1939 entrò nell’Arma dei Carabinieri, in cui si distinse subito partecipando fino al 1945 al Secondo conflitto mondiale in Africa, Slovenia e Trinacria, e conseguendo una “pioggia” di riconoscimenti ed encomi solenni, oltre ad una promozione per meriti di guerra e ad una proposta di avanzamento per meriti eccezionali».
«Dal 1945 al 1951», aggiunge il generale Gianfranco Milillo, «fu poi nuovamente nella sua terra d’origine, in cui profuse il suo impegno nell’immane lotta al braccio armato dell’Evis, il movimento indipendentista siciliano, a cui aderì, per alcuni mesi, il sanguinario Salvatore Giuliano, sfruttandone la copertura e divenendone colonnello, così da perdurare nei suoi attentati alle Forze di Polizia, culminati in una strage crudele. La fatale sera del 19 agosto 1949, infatti, la gang del famigerato fuorilegge assalì la caserma della Stazione Carabinieri di Bellolampo, collina alle spalle della Conca d’Oro; scattato l’allarme, da Palermo partì subito, in ausilio, una colonna di mezzi carichi di uomini della Benemerita, agli ordini dell’allora tenente Milillo. Durante la marcia di rientro alla base, nell’oscurità notturna, il camion su cui egli viaggiava saltò su una mina anticarro, esplodendo: la terrificante deflagrazione, avvenuta in località Passo di Rigano, provocò il decesso di sette carabinieri ed il ferimento di altri dieci, fra cui mio padre». Pochi giorni dopo, Milillo entrò a far parte del Comando Forze Repressione Banditismo, prontamente istituito e diretto dal colonnello dei Carabinieri Ugo Luca, a sua volta scampato all’agguato.
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